Anglicismi nella lingua italiana: Yes or No?
Furono i primi anni Novanta a lanciare il grido contro gli anglicismi: il libro del linguista Arrigo Castellani aveva un titolo piuttosto eloquente, Morbus Anglicus. Ma non tutti i colleghi erano d’accordo: l’alunno Luca Serianni (oggi uno dei linguisti italiani più noti) all’epoca controbatteva che la presenza degli anglicismi fosse legata principalmente al settore scientifico e non a quello del parlato, e anche un altro grande, Tullio De Mauro, non si preoccupava affatto dell’invasione britannica nella lingua italiana.
L’invasione digitale
L’egemonia del digitale nel Ventunesimo secolo ha sicuramente dato una spinta alla contaminazione, invertendo però la tendenza precedente: se prima si era più propensi ad adattare l’inglese all’italiano, traducendo letteralmente (basti pensare al calco skyscraper – grattacielo), oggi gli anglicismi vengono accolti naturalmente nella nostra lingua, seppur con qualche incertezza nella pronuncia e nella grafia, ma non solo. Pensate a quante volte ci siamo chiesti se dire film o films o a quante altre volte ci siamo interrogati sul genere di una parola: email sarà maschile o femminile?
L’affermazione del web e dei social network, incrementando l’uso degli anglicismi, ha creato il nuovo fenomeno dell’italianizzazione dei verbi in inglese, a cui viene aggiunta la desinenza della prima coniugazione -are: taggare, postare, spoilerare.
La rete quindi ha decisamente snellito la nostra lingua, rendendola più semplice. Questo potrebbe non essere proprio un vantaggio per i nativi digitali, abituati sin da piccoli alla comunicazione frammentaria del web e quindi all’utilizzo costante della chat (altro termine intraducibile) del loro smartphone.
L’inglese, però, non è protagonista solo della lingua dei giovanissimi: in ambito professionale vengono utilizzate tutti i giorni parole come call, part time/full time, freelance, manager o meeting. Gli influssi anglosassoni si sentono forti anche nella moda (outfit, cool, fashion, trendy), nel cinema (sequel, prequel, spin-off) e nella musica (star, playback, videoclip). Alcuni termini li troviamo in primo luogo sui giornali, coniati dai giornalisti, come ad esempio millennials, altri sono entrati proprio nel parlato senza necessitare nemmeno una traduzione italiana: se per teenager possiamo ancora usare adolescente, non possiamo dire lo stesso della formula “all you can eat” al ristorante.
Paradossalmente il numero degli anglicismi nell’italiano non è direttamente proporzionale al numero di coloro che parlano inglese in Italia. Nel 2018 solo il 43,6% degli italiani ha dichiarato di conoscere la lingua internazionale.
L’ultimo baluardo della lingua del sì forse resta il doppiaggio: in tutto il mondo i film in lingua inglese vengono solo sottotitolati, mentre nel nostro Paese resiste la voglia di “dare voce”, letteralmente, alle pellicole straniere. Questo, se da un lato tiene alto lo stendardo della lingua natale, dall’altro ci penalizza in fatto di comprensione e pronuncia. Siete d’accordo?